La balbuzie di Mosé: una possibile spiegazione teologica

23.01.2012 18:22

L'idea di affrontare tale argomento è venuta dal fatto che la balbuzie, così come la definisce Bitetti in una sua recente monografia, è essenzialmente un problema relazionale.1 Tale problema si avverte, tra i personaggii biblici, proprio in Mosé.

Così infatti afferma il testo di Es 4,10 a proposito di Mosé:

"Mosé disse al Signore: "Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono stato né ieri né ieri l'altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua". Il Signore replicò: "Chi ha dato una bocca all'uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire". Mosé disse: "Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!".

Mosé si rende conto di avere la lingua debole e, per questo motivo, si era lamentato col Signore perché lo mandava a profetare e ad arringare con la lingua priva di forza. Anche in 6,10 Mosé fa notare a Dio che lo aveva mandato a parlare col faraone che questi non lo avrebbe senz'altro ascoltato, dato che la sua lingua era incirconcisa:

"Il Signore disse a Mosé: "Va e parla al faraone, re d'Egitto, perché lasci partire dalla sua terra gli israeliti!". Mosé disse alla presenza del Signore: "Ecco, gli israeliti non mi hanno ascoltato: come vorrà ascoltarmi il faraone, mentre io ho le labbra incirconcise?" (Es 6,10).

A tal riguardo il termine incirconcisa, riferita alla lingua di Mosé, attesta che Mosé non aveva facilità di parola e non era per niente eloquente proprio quando, riprendendo le parole di Bitetti, si relazionava con un altro. Mosè si accorge di tale impaccio proprio quando deve profetare, cioè quando deve manifestare al popolo di Israele ciò che Dio gli ha comandato di dire. Instaurando un parallelismo tra Mosé e gli oratori greci, possiamo dire che anche gli oratori greci, come Mosé, si ritrovano nella stessa situazione solo quando devono presentarsi davanti al pubblico.

Infatti fin dalla più remota antichità tale difetto, che ricopre l'ambito del disordine fonetico, se così possiamo dire, era avvertito soprattutto quando l'oratore doveva esibire davanti al pubblico il suo grande talento culturale.2 Questa impotenza a estrapolare le parole dalla propria interiorità era avvertita nei grandi sapienti dell'antica Grecia. Anche Mosé ugualmente avverte tale impotenza solo quando è in procinto di profetare davanti al popolo per mandato divino.

Facendo un paragone tra Mosé e i grandi pensatori dell'antica Grecia è opportuno dire che tale mancanza è dovuta al fatto che l'uomo saggio, quanto alla sua sapienza e al suo linguaggio, è affine per analogia e non per natura a Dio, perché la sua parola (logos) è un frammento di quella di Dio. Così infatti afferma Giustino nella sua 2 Apologia.3

Sulle orme di Giustino possiamo dire quindi che Mosé, alla pari dei saggi greci, ha una parola debole perché la sua parola è creata, non generata dalla sapienza di Dio. Pertanto come nei grandi pensatori dell'antica Grecia anche in Mosé si riflette la ragione seminale di Dio, per cui il pensiero di Mosè come quello dei grandi pensatori greci, è un pensiero distante per natura da quello di Dio e, conseguentemente, la parola, cioè il logos di Mosè non può esprimere pienamente e in maniera esauriente la verità divina, in quanto la scintilla della parola divina che è in Mosé è una parte infinitesimale di quella che è l'immensa Parola di Dio, che si riflette così com'è solo nel Figlio.

Questo concetto è stato spiegato molto bene da Giustino martire, il quale, nel suo Dialogo con Trifone, fa intuire al suo interlocutore che solo il Figlio è Parola vera, indefettibile e senza impaccio, perché egli è la vera espressione della sapienza del Padre.4 La Parola che esce dal Padre, per Giustino, è una parola che non menoma la natura del Padre, perché egli è la diretta espressione della sua sapienza.

Il figlio, in quanto essere divino perché generato dal Padre ab aeterno, possiede la sapienza del Padre, perciò la parola che è il figlio è una parola che esprime tutti gli sperma logou del Padre e da ciò ne consegue che la Parola (il Figlio) viene emessa senza alcuna fatica, perché egli è l'espressione perfetta del Padre. Invece Mosé, nel proferire la Parola di Dio, si trova in difficoltà, perché in lui si riflette in misura parziale la sapienza del Padre, e per questo gli diviene difficile proferire le profezie, in quanto, nell'atto di proferire ciò che Dio gli ha detto, egli stesso denota una deficienza di parola - insufficienza che gli deriva proprio dalla natura umana perché tale insufficienza è inscritta nella debolezza dei suoi organi fonetici e intellettivi - tesa a non esprimere tutto ciò che Dio voleva dirgli, in quanto la natura umana è creata, non generata da Dio. Diversamente il Figlio, proprio perché detiene la potenza di Dio, esterna la sapienza del Padre così com'è, è parola eterna perché gli proviene per natura dal Padre e non per affinità, come nel caso di Mosé e degli altri sapienti dell'antica Grecia. La favella che esce dalla bocca di qualsiasi uomo saggio e quindi anche di Mosè è una favella debole perché, come ci spiega Giustino nel Dialogo con Trifone, essa è un piccolo frammento dell'essere stesso del Padre, in quanto scissa dalla sostanza divina del Padre.5 Pertanto la parola che esce dalla bocca di Mosé è una parola divisa da quella di Dio, inferiore per essenza dalla parola che esce direttamente dalla bocca del Padre, perché non ha niente a che fare con ciò che è proprio di Dio. È una parola dunque emanata da Dio, non generata.

Alla luce di ciò possiamo dire che la parola di Mosé è una favella creata da Dio, dove non risiede l'essenza stessa della sapienza di Dio, per cui tra la parola di Mosè e quella di Dio, non c'è una compartecipazione reale, bensì una partecipazione analogica, in quanto la Parola del Padre è infinitamente distante da quella di Mosé.

Riprendendo le parole di Giustino possiamo affermare che Mosé quando proferisce qualsiasi parola deturpa la sapienza del Padre, perché è una parola divisa da quella del Padre, diversamente dal Figlio che invece quando proferisce la Parola di Dio, non menoma la sapienza di Dio e non la divide da se stesso, perché egli è la diretta espressione della Parola del Padre, per cui la parola scaturita dalla bocca del Figlio non è divisa da quella del Padre ma è quella del Padre, come lo era fin dall'eternità.

Da ciò se ne deduce che il balbuziente Mosè è colui che, nell'intento di proferire la parola, fa esperienza della sua finitezza perché la sua parola, alla pari di qualsiasi altro saggio greco, è eternamente distante da quella divina. Per questo motivo la sua parola si blocca.

Sotto questo profilo Mosé, non potendo esternare tale e quale il pensiero divino, difetta cioè ha una parola debole, perché egli, in quanto uomo, in un certo senso lede la Parola del Padre, nel senso che la degrada in quanto la avvinghia nei miseri meandri del suo ristretto pensiero umano. Questa potrebbe essere quindi una possibile spiegazione teologica, per cui Mosé si trova in difficoltà a proferire parola sulle cose di Dio.

1 A. BITETTI, La balbuzie: un problema relazionale, Roma 2006.

2 Cfr. ad esempio Demostene che egli stesso si definisce balbo, perché incapace di pronunciare bene le parole. Vedi inoltre Cicerone, Plinio, Aristotele ecc. Un'interessante panoramica di soggetti balbuzienti si può vedere in A. SALA, Cura della balbuzie, Milano 1922.

3 GIUSTINO, 2 Apologia 8,1.10,2. Ed. crit. Ch. MUNIER, Justin. Apologie pour les chrétiens, Paris 2006, pp. 338-340.348.

4 GIUSTINO, Dialogo con Trifone.61,1. Ed. crit. Ph. BOBICHON, Justin martyr. Dialogue avec Tryphon, vol. I, Fribourg 2003, p. 347.

5 GIUSTINO, Dial. 128,4. Ed. crit. Ph. BOBICHON, Justin martyr. Dialogue avec Tryphon, vol. I, Fribourg 2003, p. 531.